lunedì 18 gennaio 2016

Better Call Saul è veramente lo spin-off di Breaking Bad?


"Spin-off – nel mondo dei media è un film, una fiction televisiva, un fumetto, un romanzo o un videogioco ricavati elaborando elementi di sfondo di una serie o di un'opera precedente (o traendo spunto da uno dei suoi personaggi)"[1]
Nel nostro caso "Better Call Saul" è stato sviluppato sulla figura dell'avvocato Saul Goodman, glorioso elemento di spicco della fortunata serie Breaking Bad.
Personaggio assurdo e grottesco, della razza di chi rimane sempre in piedi, Saul incarna la figura dell'azzeccagarbugli; quel tipo di avvocato che solitamente viene assunto dai colpevoli e che rimane, con inverosimili contorcimenti legali, sempre illeso dal pericolo del vero nella giustizia. In Breaking Bad è prevalentemente questo: "un senza dio" disposto a vendere etica e morale per denaro, pacchiano, imbarazzante, un vile parassita, nevrotico, ossessionato e paranoico. Eppure l'avvocato Goodman risulta la miglior macchietta di tutta la serie conquistando la simpatia immediata del pubblico. 
“Nel luglio 2012, Vince Gilligan, creatore di Breaking Bad, ha accennato ad un possibile spin-off incentrato su Goodmam e nel mese di aprile 2013, è stato annunciato che la serie era in fase di sviluppo, con Gilligan e Peter Gould al comando delle operazioni.” [2]
Nella prima stagione assistiamo alle picaresche vicissitudini di "Jimmy" McGill – in futuro Saul Goodman -  fratello minore, all’anagrafe e in posizione sociale, del malatissimo ed ex grande avvocato Chuck McGill che, pur gravando con il peso morale della sua ombra, aiuta il fratello minore ad uscire dal carcere e a rifarsi una vita.
La mia tesi è questa: la penna magistrale di Vince Gilligan ha creato un personaggio precedente a Saul che, in corso d’opera, è riuscito a sviluppare una sua ragione d’essere, del tutto slegata dai guai contingenti di Walter White. Questa tesi porta in sé una protesta che vorrebbe la serie svincolata dal limitante titolo di spin-off.
E’ la qualità letteraria del personaggio principale che rende Better Call Saul  una storia “indipendente”; non siamo più spettatori dei lazzi di un buffone senza passato che cerca di sbarcare il lunario della quotidianità con ogni mezzo, "Jimmy" McGill è un antieroe che cede all’ineluttabilità del destino – tema molto caro agli scrittori americani di una certa epoca – e diventa, in una metamorfosi dolorosa e necessaria, l’inaccetabile e folcloristico Saul Goodman: un altro elemento della saga umana firmata Vince Gilligan.

(Fabio Prestifilippo) 

[1] cit. Wikipedia
[2] cit. Wikipedia

giovedì 25 ottobre 2012





Michela Murgia – A colpi di rosario


Non è certo la scoperta del secolo: chi ama la narrativa pura esige che la storia gli si attacchi agli occhi perniciosamente, che diventi la sua malattia mensile. Il lettore reclama d’essere coccolato, che le vicende dell’eroe siano il suo primo pensiero al risveglio e l’ultimo prima di addormentarsi. Se avvezzo ad un trattamento di lusso raramente gli capiterà di godere di un romanzo che, per motivi del tutto fittizi, distragga dalla storia;  accidenti come il prurito alla schiena, la mosca e la zanzara.
Eppure può accadere una cosa del tutto inaspettata: la vicenda si distacca completamente dal continuum narrativo per diventare il ricordo di una precisa fase della nostra esistenza.
Così L’incontro di Michela Murgia è la storia della mia infanzia che non ha nulla in comune con le vicende del protagonista… è la separazione tra il contenuto effettivo del libro “Ogni estate Maurizio, Franco e Giulio diventano fratelli di biglie, di caccia alle libellule, di storie di fantasmi e di lotta ai topi. Ma nell’estate del 1986 qualcosa, a Crabas, è destinato a mettere in crisi quel presente plurale così naturale e così dato per scontato: il vescovo Sparedda, ormai vicino al pensionamento, si mette in testa di fondare in paese una nuova parrocchia intitolata al Sacro Cuore di Gesù, che farà compagnia a quella di Santa Maria, da sempre «il polmone della comunità». Imprevedibilmente, Crabas si spacca tra favorevoli e contrari. E per la prima volta il confine tra noi e loro diventa una frattura che attraversa le vie del paese.
La tensione aumenta man mano che ci si avvicina alla cerimonia dell’incontro. Orgoglio di Crabas, L'incontro è la processione più importante dell’anno: non una, ma due statue – quella della Vergine e quella di Gesù – se ne vanno a zonzo su due percorsi diversi, per incontrarsi infine nella piazza principale. Ma cosa può succedere se, per colpa di parroci e parrocchiani incapaci di mettersi d’accordo, le statue che si aggirano per il paese sono addirittura quattro?”
e tutte le indicibili angherie commesse a danno mio e degli altri  in quell’età dove solo la paura dello schiaffone pone un limite alla crudeltà; se ci ripenso adesso mi viene una pena angosciosa ripensandomi aguzzino delle salamandre, bulletto notturno dei fossati e sterminatore indefesso delle ebracce. Con L’incontro non c’è stata la (da alcuni esasperata) "immedesimazione", bensì una serie di eventi narrativi scatenanti ricordi tutt’altro che contestuali alla fabula: io leggevo e la mia memoria componeva le dinamiche di un’altra storia: la catarsi della mia età crudele.  Questa non potrà mai essere una critica nel senso classico del termine, semmai una fuga, un dileguarsi dal pericolo del giudizio perché giudicare comporterebbe un allontanamento da una delle esperienze più strane della mia vita di lettore. Lasciatemelo dire, letta l’ultima pagina e chiuso il libro ho pensato: “quell’infame di rudy mi deve ancora 500 lire”. Provateci…

giovedì 6 settembre 2012




L'erotismo di Oberdan Baciro di Lelio Luttazzi


 Molti preferiscono affidarsi a metafore ittiche come pesce in mano sotto la doccia, mercato del pesce sul divano, la solitudine del pescivendolo. Zaganella è la mia prediletta, sega forse è un termine un po' trito e triste. E’ una gioia la zaganella? Chi lo può sapere.
Tutti gli uomini forse sono uomini-zaga; e l’uomo-zaga si sa, è sempre al passo coi tempi. Potremmo aprire un interminabile simposio sulla questione derivante dalle nuove frontiere della zaganella dopo l’avvento di internet, ma non mi sembra il caso di pigiare troppo forte sul tasto di un argomento che è divertente solo se trattato come un breve insieme di motti di spirito, consumati davanti alla macchinetta del caffè: “cosa farai nel week?”.
Oberdan Baciro, l’eroe della nostra storia, è tutt’altro che un uomo frustrato ed è lontano dall'essere contemporaneo; in prima istanza perchè non è un adulto ma un bambino di 8 anni, precocemente erotomane, incline al voyeurismo, zaga dipendente e figlio di una madre irredentista, patriota e rompiglioni secondariamente perchè è nella triste era fascista che Oberdan subisce le sue funamboliche sfighe.

“A Oberdan il termine <<paradiso>> sembrò un tantino esagerato. Non di meno quel brividino così poco gli dispiacque, che da allora non lasciò passare un solo giorno senza procurarselo – e più di una volta – fino ad omologare, a undici anni, il Record delle Ventiquattrore Venezia Giulia (tredici pippe in un pomeriggio).

 In un clima di fascistissime astinenze, in una  casa dove il sesso è una privazione oltremodo fisica e verbale, in una Trieste apparentemente bigotta dove le faccende del piacere si sbrigano nelle case di tolleranza, nei sotto scala dei palazzi, sulle panchine di un parco fuori porta, si configurano le vicende tragicomiche dell’educazione sessuale del nostro decerebrato Oberdan (anche se l’autore tenta in ogni modo di affibbiarli, attraverso trite prove di filosofie da taccuino, una debole identità intellettuale). La sua mente è totalmente obnubilata dal disperato tentativo, oramai adolescente, di perdere la sua vergognosa verginità.  Poiché alla base non serve, non emerge mai un riconoscile profilo psicologico del protagonista. Insomma Oberdan si districa all’interno di una tale quantità di fatalità avverse che sembrerebbero destinarlo all’eterna verginità: herpes genitali, fidanzate che lo tengono perennemente in uno stato d’eccitazione senza via di fughe, ragazzine della Trieste bene, disinibite, che lo illudono per poi gettarlo in uno stato di prostrazione ancora più profondo. Una tragedia comica quella di Baciro, dai risvolti grotteschi, per un soggetto che sembra essere stato forgiato per il sesso ma che il destino non vuole aiutare.

“La prima ero-storia di Oberdan ebbe luogo a Trieste, nel giardino di casa di un’amica di sua madre.
[…] – Ciapa quel sasso piato… sì, quel… e adesso sfreghmelo qua!
Si trattava, se Oberdan aveva ben capito, di strusciale la chiappa non già con la manina, ma con una pietra!
Deluso ma obbediente, Oberdan eseguì.
Durante l’operazione Aurora sudacchiava e respirava affannosamente, e Oberdan ne trasse un’impressione a dir poco strana.
Né la propria esperienza gli consentì di inquadrare il fenomeno nel novero dei feticismi.
Improvvise voci in avvicinamento”

E’ un romanzo che mi sento di consigliare perché si “muore dal ridere”, perché il nostro protagonista – prima infante timidamente audace, poi adolescente ancora scandalosamente vergine – è anticonvenzionale, è resistente, è antifascista e  fondamentalmente non passa mai la mano; atteggiamento assai raro nello zagamento esistenziale della nostra epoca.

martedì 29 maggio 2012







Architetture d'altrimondi

di Fabio Prestifilippo


Le poesie di Veronica Fallini  attingono dal reale  per questioni puramente formali e linguistiche, tutto il resto è una sapiente revisione del mondo. L’autrice ci svela una geografia di cose che non tornano, di cose avvolte in una nebulosa nella quale è facile smarrire anche il senso dei propri ingombri terrestri. Rimescolare gli elementi genera una apparente perdita di significato ; del  “significato” come possibilità di esprimere un concetto attraverso segni idiomatici. Se siamo spettatori di un mondo che perde nel suo farsi le proprie generalità, pretendere che il significato sia percepibile, quando di fatto il significante ha subito una metamorfosi radicale, è una pretesa astratta. In “Oroscopi (e altre minute ossessioni)” la parola sembra non concludersi mai; il  magma linguistico dentro il quale circola il ritmo dei versi è rappresentativo del limite che la Fallini cerca animosamente di oltrepassare. Nel meraviglioso incipit che introduce al primo capitolo l’autrice afferma:
La poesia come nuotatori
ha bisogno di apnee, non una vasca dietro l’altra
[…]E all’emersione lo stupore del sopravvissuto.

Siamo sospesi  in un incubo dove lo stupore del sopravvissuto appare come una fragile salvezza? Già la Fallini di “Umane cose” aveva dato inizio al suo viaggio forse indicandoci la misura degli elementi:“La sua forma è una strada / che non esiste / prima del passo. E ancora quando alla oscura fraseologia dell’universo aggiunge elementi sensoriali illuminanti: “Una percezione obliqua emerge / dal falò delle parole / un dietro mondo straniero / si affaccia tra la polvere e le braccia.
Una topografia astratta in questo senso viene allora a soccorrerci quando, come afferma Mario Santagostini nella bella introduzione all’edizione LietoColle, il disordine è radicale, quando l’autrice dissemina questo universo con nuclei di senso altamente ostici da afferrare.
Seminare gli occhi” scriveva Velimir Chlebnikov; negli oroscopi tutti gli elementi sensoriali sono disseminati, con la consapevolezza che dispiegare l’armonia che sottende al disordine è un’ impresa che va ben oltre la forza della parola-segno e della la parola-significato.

Se questa è terra d’esilio
solo alla fine del tempo torneremo
in patria.

Per noi – principianti allo sbaraglio –
si alzerà il giorno incarnato
e si solleveranno le dighe a far scorrere
il verbo nei solchi del costato

La silloge Oroscopi (E altre minute ossessioni) è divisa in quattro sezioni: Oroscopi, Fantasmi, Cartoline e Amore. L’oltremondo falliniano è disposto secondo dinamiche narrative anche se  la massa linguistica strema il significante sino a sortire l’effetto di un caos ben congegnato.  
Nella prima sezione l’autrice definisce lo spazio della vicenda: un habitat dentro il quale, oltre ad una cospicua e sinestetica categoria naturale, troveremo la sua parola, la parola che non può vivere al di fuori del suo habitat. Si direbbe paradossale, anche di fronte ad un’instancabile produzione di sinestesie il dettato risulta comunque perentorio, forse alla ricerca di un presupposto morale: C’è una via facoltativa, ti dicono / diventa obbligatoria nel momento del suo farsi / non è ancora depositata sul fondo / che è già passata tutta una vita oppure Il tempo degli oggetti non sa riempire gli attimi / ma solo alle basse frequenze si captano le voci. Già in umane cose affermava: “E in ogni direzione / l’anello del limite si apre / e consuma / tutta la luce. Il mondo è solo un indizio, /  noi i cani / che seguono la pista.”
Definito lo spazio, dove per altro compaiono già alcune inquietanti presenze – dementi pionieri dell’aurora, bambini di serra nella scuola d’infanzia,  rigidi tizzoni di spettri, sterpi sul punto di urlare – Veronica Fallini principia un dialogo incaricato di svelare le peculiarità agghiaccianti dei suoi “ospiti”. Lo fa attraverso un modus operandi caro al Montale delle “Occasioni” e  sono appunto le occasioni della memoria – propria e di altri – a caratterizzare la seconda sezione del libro.
Fantasmi: questo è il luogo dove il rovesciamento dei ruoli  è definito  -  sempre nella misura di un rapporto tra significato e significante a volte certo a volte negato – e sigillato.
Diciamo di tener vivi i morti, ricordandoli/ma se fossero loro a ricordare noi?  
A loro, ai morti, viene affidata un’identità postuma ma permane  un attitudine al mutismo: il senso delle cose, perduto per volontà in vita, qui è  definitivamente paralizzato.
In Cartoline, terza sezione del canto, si dipana lentamente il contorno di una impressione di luce; la pausa e un primo faticoso risveglio sono i termini fissi di questo capitolo nel quale non è ancora ben chiaro se l’autrice voglia lasciarci una goccia di splendore. Le terribili presenze vaganti nel buio di un limbo surreale ci danno dei segnali, ammiccano a un’incrinatura rivolti verso l’alba di un giorno ancora straniero.
Jennifer Egan afferma che la pausa segna la nostra percezione del tempo che scorre:  “In attesa di colmare un seme di luce / e alzare il passo verso la stagione severa/la linfa dormiente nel mio costato / sorveglia i fiori che premono la terra […]”. Se di fatto la pausa è una misura del tempo, in “Cartoline” c’è il timore di colmarla ancor prima che il tempo riprenda il suo ritmo, la sua quantità: “L’inquilino del mondo / che attraversa la strada a ora tarda / non deve accendere la luce”, ma è anche contenitrice di un’atipica nostalgia del presente: “Mi rincuorano i tuoi panni / stesi in bagno ad asciugare / e la festa di farina recente.”
Non mi è congegnale la poesia che usa la negatività come presupposto e conclusione, piuttosto amo il poeta immerso in una cosmologia del negativo dal quale tenta, con tutta la forza che la parole gli concede, di uscirne. Il linguaggio poetico possiede un’energia autonoma che non può prescindere dalla tensione verso un’ etica della verità; l’incubo dell’introspezione, anche quando è nella sua fase più parossistica, se non trova un viatico diventa automaticamente posa estetica e perde qualsiasi valore.  Non corre questo genere di rischio il nuotatore di Veronica che necessita di lunghe apnee e poi, in debito d’ossigeno, risorge dall’acqua. E se lo stupore del nuotatore fosse in realtà meraviglia per un mondo che ha cambiato inclinazione ma che permane come luogo della vita?
Nella dichiarazione di una dialettica tra luce e ombra, tra apnea e respiro, come infrastruttura portante dell’opera Falliniana,  “Oroscopi (E altre minute ossessioni) procede verso la conclusione. Ne abbiamo già un vago sentore poco prima del magnifico capitolo finale. Ancora in Cartoline: “Si pagano tutte le albe perdute, nello sprofondo dei volti/mentre l’occidente è rimandato.”
Amore è la sezione finale composta da due poesie che – per quanto riguarda il mio modesto parere – anche decontestualizzate dalla filologia dell’opera, diventano istantaneamente dei piccoli capolavori umani. Nei versi finali Veronica Fallini scioglie in parte il dedalo di strade nel quale ci ha guidati, rammentandoci che attraverso un perdurante ritorno alle cose, diventando gli attori di un viaggio che non si conclude, che ciclicamente ci impone altre apnee, altre immersioni nella nostra oscurità umana, possiamo riemergere come meravigliati nuotatori … in attesa di un altro seme di luce da colmare.

Ora potrò fare il viaggio all’incontrario
salirò la discesa dal ponte
comprerò il biglietto timbrato
mi allaccerò le scarpe
e alla fine saranno allineate
le mie vertebre sulla massicciata.

venerdì 25 maggio 2012

venerdì 11 maggio 2012



Emergenze della memoria

Marino Moretti

di Fabio Prestifilippo

La rubrica “urgenze della memoria” che pubblica a scadenza casuale è felice di ospitare tutti i poeti che corrono il rischio di finire nella teca a tenuta stagna dei dimenticati per sempre. Moretti è in pericolo; anche se  insignito ex vivo del più alto fra i riconoscimenti editoriali - il Meridiano Mondadori -  ed anche se Palomar pubblicò nell’antidiluviano 1992 una preziosa edizione di “Poesie scritte col lapis” ed anche se la stessa casa editrice ne ha stampata una nuova edizione con grafica rivista ma con lo stesso apparato critico, se escludiamo alcuni carteggi comparsi miracolosamente dalla nebulosa dell’editoria di nicchia (ultimo dei quali pubblicato da “Storia e Letteratura” collana Epistolari, carteggi e testimonianze per l’accessibilissima cifra di 28 euro)  ad oggi sembra che Marino Moretti sia tra i poeti che  presto o tardi diventeranno introvabili anche nelle biblioteche dei piccoli paesi di provincia.

E voglio che questa nostra
Grande famiglia discreta
Mi guardi e dica: il poeta,

il poeta sulla giostra!
E rida e rida perché
Un poeta che si mostra su
un cavallo della giostra
Sembra il pagliaccio ch’egli è!

(Marino Moretti da La giostra)


Marino Moretti è nato  a Cesenatico in provincia di Forlì nel 1885, da Ettore, impiegato al Comune e imprenditore di trasporti marittimi, e da Filomena Moretti, insegnante elementare, di origine marchigiana. Frequentò la scuola elementare a Cesenatico nella classe della madre, esperienza indubbiamente importante per la formazione della sua personalità.Nel 1896 venne iscritto presso l'Istituto "Sant'Apollinare" di Ravenna diretto da religiosi, ma l'anno seguente lo abbandonò per il profitto scadente. Si iscrisse quindi al liceo-ginnasio "Vittorino da Feltre" di Bologna che lasciò nel 1900, senza aver conseguito la licenza ginnasiale...


di Marino Moretti
A Cesena

Piove. E’ mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia delle case senza posa,
schiume ai piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella tua vita, bella.

Bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolento,
il babbo che ti vuole un pò di bene.

“Mamma!” tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei viaggi, poi...

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perchè; ripeti ancora
quando, come, perchè, chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo , di nuora.
Parli d’una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto,
il nonno ricco del tuo Dino, e dici:
“Vedrai, vedrai se lo terrò di conto”.

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.


Piove. E’ mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui,
tutta d’un uomo ch’io conosco appena,

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla... così,
senza dolcezza mentre piove o spiove:

“La mamma nostra t’avrà detto che...
E poi si vede, ora si vede, e come!
Sì, sono in cinta... Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome...
Ho fortuna, è una buona gravidanza...”

Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. E’ tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!

Io non ho nulla da dire

Aver qualche cosa da dire
nel mondo a se stessi, alla gente.
Che cosa? Non so veramente
perché io non ho nulla da dire.

Che cosa? Io non so veramente.
Ma ci sono quelli che sanno.
Io – lo confesso a mio danno –
non ho da dir nulla ossia niente.

Perché continuare a mentire,
cercare d’illudersi? Adesso
ch’io parlo a me mi confesso:
io non ho niente da dire.

Eppure fra tante persone,
fra tanti culti colleghi
io sfido a trovar che mi neghi
d’aver questa o quella opinione,
e forse mia madre, la sola
che veda ora in me fino in fondo,
è certa che anch’io venni al mondo
per dire una grande parola.

Gli amici discutono d’arte,
di Dio, di politica, d’altro:
è c’è che mi crede il più scaltro
perché mi fo un poco in disparte;

qualcuno vorrebbe sentire
da me qualche cosa di più.
"Hai nulla da aggiungere tu?"
"Io, no, non ho niente da dire."

È triste. Credetelo, in fondo,
è triste. Non esser niente.
Sfuggire così facilmente
a tutte le noie del mondo.

Sentirsi nell’anima il vuoto
quando altri più parla e ragiona.
Veder quella brava persona
imporsi un gran compito ignoto.

E quelli che chiedono a un tratto:
"Che avresti tu detto al mio posto?"
"Io…Non avrei forse risposto…
Io…mi sarei finto distratto."

Non aver nulla, né mire,
né bei sopraccapi, né vizi;
osar fino in mezzo ai comizi:
"No, sa? Non ho niente da dire."

Ed esser creduto un insonne,
un uomo che veglia sui libri,
un’anima ardita che vibri
da tutto uno stuolo di donne.

"Mi dica, sua madre che dice?
Io so dai suoi libri che adora
sua madre. Nevvero, signora?
nevvero che è tanto felice?

Un figlio! Vederlo salire,
seguirne il pensiero profondo…"
Ed io son l’unico al mondo
che non ha niente da dire.

(da Il giardino dei frutti)

La signora Lalla

Quando l'anima è stanca e troppo sola
e il cuor non basta a farle compagnia,
si tornerebbe discoli per via,
si tornerebbe scolaretti a scuola.

Ma sì, prendiamo la cartella scura,
il calamaio in forma di barchetta,
i pennini, la gomma, la cannetta,
la storia sacra e il libro di lettura.

Andiamo dunque: il tema è messo in bella;
andiamo, andiamo: il tema è messo in buona;
Dio, com'è tardi! La campana suona,
tra poco sonerà la campanella.

Ma che dico? è domenica, è vacanza!
Non c'è scuola quest'oggi, solamente
c'è da imparare un po' di storia a mente
soli, annoiati, nella propria stanza.

C'era una volta (ora mi viene a mente)
la scuola della festa: era una scuola
alla buona, così, con una sola
maestra, vecchia, senza la patente.
Signora Lalla, dove sei? T'aggiri
nella tua casa piena di panchetti
e sul quaderno scrivi un 5 o metti
un punto sopra un i con due sospiri?

Signora Lalla, hai più quel mio ritratto
ch'io ti donai per Sant'Eulalia? e quella
treccia, in un quadro, d'una tua sorella
defunta? e l'altarino è ancora intatto?

Forse sei morta. Ed i tuoi strani oggetti
sono scesi con te, con la tua spoglia
dentro la fossa. La tua casa è spoglia
dei quadri, dei presepi e dei panchetti.

Che importa? Io t'amo e tu sei viva, o muta
immagine che guardi i miei quaderni
d'ora e i noti caratteri vi scerni
con uno sguardo di sopravvissuta.

Come son vani, come son diversi,
signora Lalla, i miei compiti d'ora.
Dimmi, vuoi riguardarmeli tu ancora?
Sembra uno scherzo, ma son tutti in versi.

(da Poesie scritte col lapis)

Valigie

Voglio cantare tutte l’ore grigie
in questa solitudine pensosa
mentre raduno ogni mia vecchia cosa
a riempir le mie vecchie valigie.

Oh le valigie, le compagne buone
dei poveri viaggi in terza classe
vecchie, sfiancate, fatte con qualche asse
sottile e con la tela e col cartone.

Le camicie van qui da questa parte,
quaggiù ai colletti cerco di far posto,
lì le cravatte e qua, quasi nascosto,
un manoscritto, e ancora libri e carte.

Ecco il pacchetto della mamma. Odora
vagamente di cacio e di salame.
Già, se avessi in viaggio ancora fame.
E questo libro e un altro, un altro ancora.

Dove vado? Non so. Ma mi sovviene
d’averla pur desiderata questa
partenza come, il piccolo, la festa
che col serraglio e con la giostra viene.

Dove, non so. Ma pare a me ch’io debba
vivere senza scopo, allo sbaraglio;
e a tratti con l’inutile bagaglio
partir per i paesi della nebbia…

(da Poesie di tutti i giorni)

La signorina più vecchia di me


Se amassi voi, se amassi voi che avete
dieci anni più di me, che su la fronte
gialliccia avete ormai tutte le impronte
di quei dieci anni di ansietà segrete!

Voi lavorate accanto alla finestra
fiorita di vasetti di vaniglia,
e siete ancora figlia di famiglia,
e avete la patente di maestra!

Che tristezza pensarvi! Avete amato
una sol volta quindici anni fa;
ma, ohimè, raggiunta la felicità,
vi morì di pleurite il fidanzato.

Un mese prima delle nozze! Ebbene,
vi giuro che geloso io non sarei
del suo ricordo e vi permetterei
di ripensarlo e di volergli bene.

E se un giorno appressasi al vostro stanco
volto o ai capelli le mie labbra amare
non mi dispiacerebbe di baciare
una ruga profonda, un filo bianco!

Dolce sarebbe la mia vita, uguale,
placida, tra i vasetti di vaniglia,
e, intenta al batter delle vostre ciglia,
scorderebbe i suoi sogni ed il suo male.

E vi direi prendendovi le dita
un pò indurite, un pò forate in cima:
“ Posso giurarti che tu sei la prima,
la prima donna che amo per la vita! “

E allora, con un gesto un pò materno,
voi mi direste flebile: “ Bambino! “,
ma mi verreste sempre più vicino
per sussurrarmi: “ In eterno! In eterno! “

Il paiuolo

Madre, se vuoi ch’io t’ami
come ti si conviene,
resta fra i tuoi tegami
smaltati bianchi e blu:
vuoi ch’io ti voglia più’
bene, molto più’ bene?

Resta in cucina dove
la tua dolcezza ha un gaio
riso che mi commuove
quando passa bel bello
dall’acquaio al fornello,
dal fornello all’acquaio;

poi va’, corri in giardino
e coglilo un rametto
d’adusto ramerino
o di scherzoso alloro
o qualche pomodoro
ancora un poco aspretto;

poi trita con un muto
cenno le tue cipolle
giovani pel battuto
e accortamente schiuma
la pentola che bolle,
il bricchetto che fuma;

si’ che, mentre la fiamma
si fa sempre più’ roca
nella cappa segreta,
tu pensa che la mamma
del giovane poeta
sa fare anche la cuoca.

Oh lascia che io prenda
queste mani che sanno
di carne cotta in forno
e far sempre sapranno
ogni buona faccenda
fino all’ultimo giorno;

oh lascia ch’io dica:
“ Triste, mammina, triste
sapere troppe cose
e cercar fra l’ortica
o fra le vuote ariste
rose e foglie di rose;

dolce invece sostare
in questi vaghi odori

guardando il focolare
e i fumi di vapori
che con labile volo
escono dal paiuolo.”

domenica 6 maggio 2012


Emergenze della memoria (da non dimenticare)




Yosto Randaccio


Un’ora dolce
a Salvatore Ruju

Non so che cosa sia
ma sento la vita mia
è diventata tutta tenerezza.
Il cuore è senza un grido di terrore,
oggi. Il mare si riposa:
non canta il mio dolore e gli sorrido.
Che giorno di dolcezza!

Allora non dicevo questo. E’ vero.
L’anima in convalescenza
è tutta sogno, tutta trasparenza.
Sente la sensazione anche più fina.
Ci credi? Una mattina
a Fiumicino credevo che il sangue del cuore
mi fosse diventetato tutto nero.

E bene mi rammento ch’era vero.
Malattia, malattia!
Ma son tornato, come te, normale.
Nè ti parlo del mio male
più. Non vedi che sono guarito?
Oggi il mio cuore l’ho tutto addolcito
da tante sensazioni nuove e strane.

Dolcezze, tenerezze alte del cielo!
Oggi ò sognato il timo e l’asfodelo
de le tanche lontane.
Il cielo è senza nuvole ed il mare
bacia la rena e canta e vuol cantare.
Mi sento fresco come un rivo e canto
anch’io come una quercia del tuo bosco.

Oh sono uscito da un abisso fosco
d’incubi e di paure,
fratello, fratello!
O’ fatto paura a te pure,
vero? Ero il terrore muto!
Tu pure ài creduto che uccidessi o m’uccidessi.

Rammento. Quanti mormorii sommessi
quando camminavo solo
col dolore!
Ma come avvenne? Io non avevo mai
cantato ed ecco a tutto quel dolore
cantavo come canta un rosignolo
che muore tra i rosai.

Facevo pena: forse anche atterrivo.
Morivo e non morivo.
Quando passavo v’era anche qualcuno
che udiva il rimbombare d’un martello
sui chiodi di una bara.
Forse la stessa sensazione amara
l’avevi tu pure, fratello!

Ma non ti parlerò di questo male
più. So che tu sai.
Io sono un altro. O’ dentro gli occhi un lampo
di sole. Il campo
è verde. Io vò tra questo vegetare
e penso ancora a te che fosti un rude
lavoratore.

Oh, la gioia delle braccia nude
nel Sole! Camminare sotto il sole,
Lavorare e lavorare e non udire
la noia de l’ore,
sentirsi bagnare la fronte
di molto sudore,
e stanchi cercarsi una fonte.

a mezzo di’, per riposarsi, quando
le cince e le cicale
cantano pazze di sole!
Ora lo so come mi fece male
il veleno di tante parole
scialbe, isteriche, dette a la penombra
di qualche salottino

profumato di muschio, di belzoino,
e pasciuly!
Troppo mi piacque ciò ch’era snervante,
la cipria e il rossetto e l’artefizio
fino delle parole. Sono stato
io pure un damerino verniciato
un seduttore esperto ed elegante.

E poi venne il supplizio.
M’ammalavo senza l’aria!
Ed ora m’han guarito il mare il sole.
Credimi: in Fiumicino
ò ricordato spesso il tuo passato,
tutte le tue parole 
velate di saggezza e di bontà.

Il cuore mio lo sa
come ànno lavorato le tue braccia
ne l’arsura
del monte, de la tanca e de la duna
bianca e deserta lungo la marina.
T’ò invidiato.

Ma ora sono tanto mutato!
Distinguo come te la foglia dalla foglia,
canto da canto, amo gli uccelli e fiori,
e un giorno anch’io li chiamerò fratelli
come tu fai i piccoli lavoratori 
i luridi mendichi.

Io pure so la via
migliore. Oggi, se lungo il sentierolo
di questa prateria
trovo qualcuno che si duole, io pure
avrò quel suo dolore nel mio cuore:
non sarà solo.
Io sono la dolcezza.

Ah sento che la vita mia
è divetata tutta tenerezza.
Non so che cosa sia,
ma il cuore e senza un grido
di terrore. Il mare si riposa:
non canta il mio dolore oggi. Sorrido.


Iosto Carmine Randacio, in arte Yosto Randaccio, nacque a Cagliari nel 1880 e morì a Roma nel 1965. Giovanissimo si trasferì dalla Sardegna alla capitale italiana per iscriversi alla facoltà universitaria di Lettere e Filosofia, durante le lezioni ebbe modo di conoscere poeti come Tito Marrone, Carlo Basilici e Giuseppe Piazza, coi quali instaurò un saldo rapporto di amicizia. Cominciò in quel periodo a scrivere e pubblicare i suoi versi che uscirono anche in riviste famose come "Riviera Ligure" e "La Vita Letteraria". Nel 1909 fu dato alle stampe l'unico suo volume poetico: "Poemetti della convalescenza". 


Opere poetiche

"Poemetti della convalescenza", Tipografia Meloni Aitelli, Cagliari 1909.


Presenze in antologie

"I crepuscolari", a cura di Nino Tripodi, Edizioni del Borghese, Milano 1966 (pp. 385-396).
"Dal simbolismo al déco", a cura di Glauco Viazzi, Einaudi, Torino 1981 (tomo secondo, pp. 399-402).
"I crepuscolari", a cura di Francesco Grisi, Newton Compton, Roma 1990 (pp. 325-336).
"Neoidealismo e rinascenza latina tra Ottocento e Novecento", a cura di Angela Ida Villa, LED, Milano 1999 (pp. 772-817).

Per le note bio-bibliografiche si ringrazia leonbizz66.blogspot.it